Lingua e scelta
Una conversazione con Eleonora Balsano, mente e voce del podcast Chosen Tongue
Mentre facevo le prime ricerche sul tema del multilinguismo per capire che direzione dare a Paltò, sono inciampata in un podcast – io che non mi filo spesso questo formato – che non poteva non incuriosirmi: Chosen Tongue, il cui host è la giornalista e scrittrice Eleonora Balsano, romana di nascita e residente in Belgio da anni. Chosen Tongue parla di autori e autrici che, per vari casi della vita, scrivono in inglese nonostante non sia la loro lingua madre. Si tratta, appunto, di una lingua (e una) scelta: da questo punto di partenza le conversazioni di Eleonora con questi scrittori – c’è chi predilige la narrativa e chi la poesia – toccano note importanti, dal ruolo del loro multilinguismo nel processo creativo al rapporto con lingue e culture d’origine.
Durante l’estate ho contattato Eleonora per chiederle se le andasse di fare due chiacchiere con me per la newsletter: quando ha risposto con interesse ne sono stata davvero felice! Ringrazio molto Eleonora per aver condiviso con me riflessioni e osservazioni scaturite dalle sue tante interviste.
Quanto c'è di personale nel tuo podcast Chosen Tongue?
Tutto! Sono all’estero da oltre vent’anni, e se per i primi dieci il legame linguistico e culturale con l’Italia era ancora fortissimo, le cose sono cambiate col tempo. Il mio vocabolario si è progressivamente impoverito a causa di un uso limitato della lingua nella vita quotidiana e, come spesso accade agli expat di lungo corso, quando la lingua madre si atrofizza un’altra prende il suo posto. Pur vivendo a Bruxelles in un ambiente francofono, nel mio caso è stato l’inglese a reclamare il vuoto lasciato dall’italiano. Nel 2017 ho buttato giù una bozza di romanzo che mi frullava in testa dai tempi dell’università. L’ho scritto in italiano perché la lingua madre sembrava la scelta più logica, finché non mi sono accorta che la padronanza della lingua non equivale per forza al ‘sentire’. L’italiano resta la mia lingua madre, ma non è più quella in cui penso. Sono passata all’inglese quell’anno e finora non me ne sono pentita, sebbene familiari e amici ancora mi chiedano, confusi, ragione di questa scelta che non capiscono e che (alcuni) hanno interpretato come un rifiuto della mia cultura d’origine. Cercando risposte per loro (e per me stessa), ho cominciato a interessarmi a scrittori che, come me, a un certo punto della loro vita hanno deciso di scrivere in una seconda lingua. Gli esempi classici sono Vladimir Nabokov e Joseph Conrad, ma a guardare meglio ce ne sono tantissimi: ho voluto intervistarli per capire come la ‘lingua scelta’ ha cambiato la loro produzione letteraria e, in molti casi, la loro vita.
Tu parli di translingual writers e non di multilingual writers, perché per alcuni degli intervistati la scelta di scrivere in inglese è in qualche modo a scapito delle altre lingue (madre e non) – è un passaggio da una lingua a un'altra a tutti gli effetti. Ascoltando le puntate della prima stagione e ancora di più quelle della seconda, tuttavia, diventa chiaro che il multilinguismo è un punto di partenza per questi scrittori, una loro radice profonda.
Assolutamente. Sono convinta che nel mondo attuale l’importanza dei flussi migratori sia tale che abbandonare la lingua materna in letteratura diventerà comune, ma non è qualcosa che si fa a cuor leggero. La lingua madre resta come un’ombra, o un fantasma. Custodisce la nostra storia più intima, i sussurri tra le mura domestiche, le parole dell’infanzia. Anche quando le circostanze esterne ci spingono a tagliare il cordone con la lingua madre, non ce ne sbarazziamo mai completamente. La lingua scelta è l’inizio di un nuovo capitolo, non cancella il passato.
In che forme si esprime il multilinguismo di questi autori quando scrivono? Che tracce lascia?
Ogni storia è a sé stante. Alcuni degli autori con cui ho avuto il piacere di parlare sono immigrati che hanno dovuto imparare la lingua del paese di accoglienza e hanno finito per dimenticare la loro lingua madre, cercando poi di impararla nuovamente da adulti. Altri sono cresciuti in territori colonizzati e hanno visto la loro lingua madre schiacciata, trovandosi a vivere il paradosso di scrivere nella lingua dell’oppressore. Ci sono gli autori che hanno cambiato lingua per semplice scelta, o per sfida (penso all’italiano Francesco Dimitri che si è trasferito a Londra dopo aver pubblicato molti libri in italiano e ha iniziato una nuova carriera in inglese), e quelli che lo hanno fatto per sentirsi più liberi artisticamente. Una costante è la sensazione, come ho scritto sopra, che la lingua madre resti come un'ombra e che la voce letteraria cambi per sempre. Sono stati davvero pochi gli autori che hanno affermato di avere la stessa voce in ogni lingua. La maggior parte ha ammesso di non potersi tradurre integralmente, e che alcuni lati della personalità appaiono in una lingua e non nell’altra.
Hai notato tratti o considerazioni comuni tra le ragioni che hanno portato questi scrittori a scegliere l'inglese come lingua scritta?
Per gli autori immigrati in paesi anglofoni, la scelta è stata necessaria e spesso inconsapevole in quanto fatta durante l’infanzia. Per altri – e mi riconosco tra questi – si è trattato di un desiderio profondo di prendere parte alla conversazione globale che si svolge in inglese. Diversi anni fa, lessi un articolo sul Financial Times (accessibile con abbonamento, NdC) proprio su questo argomento e mi fece una grande impressione. Osservando che oggi si può parlare inglese da madrelingua anche senza aver mai vissuto in un paese anglofono, l’articolo rifletteva su un futuro in cui gli autori avranno una carriera nazionale nella loro lingua madre e una internazionale in inglese.
La terza stagione del podcast è uscita da poco. Come prosegue il discorso portato avanti nelle due stagioni precedenti?
La terza stagione è uscita ad agosto! È sempre un sollievo quando il primo episodio di una nuova stagione è in onda. :) Questa volta ho intervistato principalmente romanzieri (con un paio di eccezioni) e il discorso è andato oltre la dicotomia lingua madre/lingua scelta, verso una riflessione sul ruolo della traduzione e sull’importanza del linguaggio nella creazione di un senso di identità e di appartenenza.
Che cosa ti è rimasto più impresso di queste conversazioni? Hai avuto delle sorprese?
Mi è piaciuto che molti autori abbiano parlato di quanto è difficile tradurre l’amore o le parole d’amore. In inglese, per esempio, c’è un solo tipo di amore, love, ma in altre lingue ce ne sono vari: in italiano ‘ti voglio bene’ e ‘ti amo’ indicano due tipi di amore e di relazione molto diversi.
A sorprendermi è stato André Aciman, l’autore di Call Me by Your Name, quando mi ha detto che sebbene viva a New York da quando aveva vent’anni, prende ancora appunti in francese e in italiano, le sue due lingue materne. Lo stesso Aciman mi ha sorpreso per il suo candore quando ha ammesso di aver bisogno di ‘cesellare’ i suoi scritti per eliminare ogni accento straniero.
Come continuerà Chosen Tongue?
Il discorso sulla lingua continua, e finché ci sarà interesse continuerà anche il podcast. Sto pensando di estenderlo oltre la letteratura, ad altri settori creativi in cui l’inglese è diventato dominante e gli artisti si ritrovano a tradursi ma anche ad arricchire la lingua con parole e concetti venuti da lontano. Penso spesso al latino e a come, nel periodo di massima espansione dell’impero romano, gli intellettuali usassero la lingua officiale nella conversazione globale continuando a usare la lingua materna nelle loro province d’origine. Credo che siamo in un periodo culturalmente molto simile.
Questi episodi delle prime due stagioni del podcast mi sono rimasti particolarmente impressi:
Letture possibili
Prima di conoscere il podcast di Eleonora, prima che Paltò prendesse forma, avevo deciso di compilare una lista di scrittori e scrittrici che scrivono in più di una lingua. Ero affascinata dall’idea di queste produzioni letterarie simultanee e bilingue. Di questi tre nomi sulla mia lista ho già letto qualcosa:
Jhumpa Lahiri scrive in inglese e in italiano; per un periodo ha vissuto in Italia, e ha tradotto in inglese alcuni libri di Domenico Starnone. Lahiri ha iniziato a scrivere narrativa in italiano quando era già una scrittrice anglofona affermata; ricordo un’intervista in cui dice delle sue opere in italiano che non avrebbe potuto scriverle in inglese. Di Lahiri ho letto con entusiasmo alcuni racconti in inglese pubblicati su The New Yorker (“Once in a Lifetime“ è di una bellezza rara). Più recentemente ho preso in mano Racconti Romani, una raccolta scritta in italiano che mi lasciato impressioni miste. È stato interessante notare la differenza di voce e stile tra questi racconti e la sua prosa inglese. In italiano Lahiri scrive in modo asciutto, lucido e attento ai minimi dettagli in maniera quasi forensica. In inglese la sua scrittura mi aveva già affascinato per l’incredibile cura per i dettagli, ma è un’attenzione espressa diversamente – con più smussature, mi viene da dire.
Yan Ge scrive in cinese e in inglese. L’ho scoperta grazie a uno dei corsi di scrittura che ho seguito in inglese: l’insegnante del corso, che la conosce personalmente, ci disse che Ge si è sentita più libera di sperimentare con la sua prosa quando ha cominciato a scrivere in inglese. Come Lahiri, Ge non era alle prime armi quando ha deciso di esplorare una seconda lingua narrativa. Un suo bellissimo racconto scritto in inglese è incluso nella raccolta Being Various. Spero di iniziare presto a leggere The Chilli Bean Paste Clan, tradotto in inglese dal cinese da Nicky Harman.
David Hoon Kim scrive in inglese e in francese. Di questo autore so poco, e potrebbe quasi non sembrare un caso dal momento che il suo romanzo di esordio si intitola Paris is a Party, Paris is a Ghost. Lo stesso Kim pare un po’ un fantasma, un’impressione rafforzata dal suo sito web altamente minimalista. Ho scoperto Kim grazie a un bizzarro, intenso racconto pubblicato quasi vent’anni fa su The New Yorker. Solo dopo qualche tempo ho capito che quel racconto era collegato al romanzo pubblicato nel 2021. Della sua narrativa in francese ho letto gli incipit di alcuni racconti disponibili sul suo sito, ma non ho ancora avuto modo di leggere qualcosa per intero. Mi ha colpita il suo uso degli incisi, che mi è parso simile nelle due lingue.
Conoscete autori o autrici che scrivono in più lingue? Li consigliate? Scrivete o lasciate un commento!
Nota: Ho scelto Spotify come piattaforma per l’ascolto del podcast Chosen Tongue, e per questo mi è risultato naturale usarlo anche per alcuni dei link inclusi in questa newsletter. Tuttavia, ho visto che il podcast è disponibile anche altrove e quindi vi suggerisco di cercarlo dove preferite.
Bellissima questa puntata, molto vicina alla mia esperienza. La prima poeta che ho tradotto estensivamente, Ewa Chrusciel, ha cominciato a scrivere in inglese dopo le prime quattro raccolte in polacco. Continua a scrivere e tradurre in entrambe le lingue. Adesso sto traducendo un poeta palestinese che vive in Australia e scrive in inglese (che io sappia finora è stato pubblicato solo in inglese). Hasib Hourani.
Interessantissimo per un Italiano che scrive in Inglese, perche’ e’ diventata la lingua con quale posso esprirmi meglio. Mi rintristrisce aver perso la facilita’ con la lingua madre, e anche di piu’, di essere non piu’ fluente con lo stupendo dialetto di paese. (Francavilla Fontana, BR). Grazie, Gaia per questa puntata.