Imparare a scrivere
Appunti dai corsi di scrittura creativa che ho seguito in italiano e inglese
Negli ultimi anni ho seguito corsi di scrittura per la narrativa in inglese e in italiano, e questo mi ha dato modo di riflettere sulle differenze che ho percepito, in termini di impostazione e stile dei corsi, tra due lingue e due culture, nel mio caso quella britannica e quella italiana. Come cambia l’esperienza di un corso di scrittura a seconda della lingua, e che osservazioni si possono fare?
La ricerca
Il primo corso di creative writing l’ho seguito alla University of the Arts London (UAL). All’epoca avevo appena iniziato a scribacchiare narrativa breve, leggevo molti romanzi e avevo una curiosità crescente per la scrittura in quanto pratica espressiva. Quel corso resta, a oggi, una delle esperienze più divertenti che abbia mai fatto. Ho letto e scritto di tutto, e avrei voluto che il corso non finisse dopo tre mesi.
Tempo dopo, nell’era nascente del vediamoci-su-Zoom, ho ripensato a quella bella esperienza e deciso di riprovare: negli anni, ho seguito altri due corsi di scrittura in inglese con la Faber Academy e la Professional Writing Academy, che all’epoca sviluppavano insieme i loro percorsi; a questi si sono aggiunti quattro corsi in italiano – con minimum lab, Scuola del Libro e Cattedrale – tutti più brevi e tematici di quel primo, memorabile incontro con la scrittura di narrativa.
Letture durante i corsi
Nei corsi in inglese la maggior parte delle letture è stata di autori contemporanei, a volte neanche particolarmente affermati. Gli scrittori scelti erano prevalentemente anglofoni, anche se non tutti erano britannici o statunitensi. È stato molto piacevole leggere autori giovani e sperimentali, scoprendo quante forme diverse può assumere la narrativa. Tuttavia, mi chiedo se le poche letture in traduzione siano state frutto di un caso oppure riflettano un certo sguardo sulla produzione letteraria globale.
Nei corsi in italiano ho notato un’attenzione speciale nei confronti di testi e autori considerati come dei riferimenti importanti. Per esempio, Ernest Hemingway è spuntato fuori ripetutamente e in due corsi è stato citato “Hills Like White Elephants” (in italiano, ”Colline come elefanti bianchi”), un suo racconto presentato come un esempio magistrale di forma breve e densa in termini di sottotesto. In alcuni corsi le letture in traduzione, specialmente di narrativa inglese e statunitense, sono state predominanti. Arrivando dai corsi in inglese, ho preso abbastanza male questa scelta: ma come, mi fate leggere Hemingway e Eudora Welty? Ma fatemi conoscere altri autori, magari anche italiani, di cui so poco o nulla! Giusto per chiarire: il mio problema non era la lettura in traduzione, ma la dominanza di testi con ambientazioni anglosassoni nelle quali mi ero già immersa ampiamente. Altri corsi hanno proposto autori italiani del novecento, e allora mi chiedo: come sarebbe stato aggiungere qualche lettura contemporanea allo studio di Elsa Morante o Cesare Pavese?
Pratiche di scrittura
Nei corsi in inglese era raro che ci fossero indicazioni prescrittive, del tipo “Questo si fa e questo non si fa”. Mi è parso che gli insegnanti cercassero di non essere mai cattedratici e accettassero tutti gli esperimenti di noi corsisti. L’approccio mi è sempre risultato molto democratico: se avete qualcosa da dire allora scrivete, scrivete! La tecnica si può imparare e affinare. Con me è stato un approccio vincente, perché mi sono sentita libera di pasticciare e sperimentare. Di tutti gli esercizi che mi sono stati assegnati, quello che mi è rimasto impresso come nessun altro si chiamava “The first and last line assignment“. Durante la lezione, ognuno di noi aveva scritto alla lavagna due frasi, una per l’incipit di una storia e una per la sua chiusura. L’esercizio consisteva nello scrivere un racconto che si aprisse con una di queste frasi e si concludesse con un’altra. Sounds like fun, huh?
Nei corsi in italiano mi è rimasta l’impressione che la proporzione fra teoria (ecco come si scrive) e pratica (ora tocca a voi, corsisti) sia stata spesso leggermente sbilanciata in favore della teoria. Le analisi dei testi degli autori scelti erano attente e mi hanno reso una lettrice migliore: spaccavamo in quattro molti capelli, ma per questo a volte capitava che si riducesse il tempo dedicato ai nostri esperimenti di scrittura. C’era anche l’occasionale “Questo (non) si fa”, a volte in riferimento ai testi dei corsisti. Un esercizio che ho trovato davvero utile è stato riscrivere un brano tratto da un libro pubblicato cambiandone il registro, un aspetto tecnico importante che avevo sepolto tra le mie vaporose memorie scolastiche. Questo esercizio mi ha fatto notare e apprezzare più attentamente le scelte lessicali di alcuni autori.
Scambi di opinioni
Ho percepito un’attenzione particolare a non fare commenti apertamente negativi in tutti i corsi che ho seguito in inglese. Il feedback era costruttivo e incoraggiante. In alcuni casi l’insegnante lo ha annunciato all’inizio del corso, “Qui si analizza ma non si dà addosso”, ma ho la sensazione che questa regola della casa fosse già implicita per la maggior parte dei partecipanti. All’inizio ho apprezzato questa politica cavalleresca, ma dopo un po’ confesso che mi sarebbe piaciuto il commento diretto, per la serie, no, questa scena non funziona. Non cercavo la rissa però a volte mi sono detta, qui a forza di essere tutti gentili non si impara e la scrittura resta quella che è.
Nei corsi in italiano non mi pare ci siano state risse, ma sicuramente ricordo commenti esplicitamente critici e negativi. Per me è stata una ventata di benvenuta spontaneità, ma è chiaro che poter essere molto diretti impone all’insegnante un ruolo di moderazione non sempre facile.
Partecipanti
A differenza dei corsi in italiano, dove non ricordo corsisti non madrelingua, nei corsi in inglese mi sono spesso trovata in ottima compagnia. Rimpiango di non aver chiesto agli altri non-madrelingua: che ne pensate di questa esperienza? Nei primi corsi in inglese mi sono sentita a mio agio, probabilmente perché vivevo in Inghilterra da tempo ed ero immersa in quella lingua e quella cultura. Sapevo di scrivere in inglese da straniera, ma era parte del divertimento (e dell’esperimento).
Quando ho lasciato la Gran Bretagna mi sono riavvicinata all’italiano, sia nelle letture che nelle scritture. Nei corsi in italiano mi sono sentita culturamente più vicina a casa (e grazie), ma ho faticato molto con la questione della voce. A volte c’era, forse, e a volte no. In inglese non mi ero nemmeno mai posta il problema: scrivevo e basta. In italiano c’era troppo rumore di fondo che mi distraeva. Su un aspetto però ho capito presto che in italiano potevo avere vita più felice che in inglese – i dialoghi. Leggendo alcuni autori anglosassoni, ho avuto la netta sensazione di non poter sviluppare lo stesso orecchio per le conversazioni.
La chiave di volta
Partendo dai miei appunti potrebbe sembrare facile estrarne delle pillole caratterizzanti: i corsi in inglese sono più hands on, più pratici, perché ti fanno scrivere e ancora scrivere, ma non guardano alla letteratura globale perché troppo presi da tutti questi autori anglofoni! Nei corsi in italiano si discute e si ragiona, ma non c’è scampo dai soliti classici! (Ecco, a due frasi che si chiudono con il punto esclamativo mi fermo.)
Il problema di queste pillole è che sono, appunto, osservazioni distillate all’estremo – sanno sospettosamente di cliché. Non ha senso cercare di estrarre caratterizzazioni sui corsi di scrittura in una lingua o nell’altra sulla base di questi appunti; li condivido in quanto singoli spunti di riflessione. Per me l’unica osservazione che conta, ora che ripenso alle mie esperienze, è che aver seguito corsi in due lingue che parlo e leggo abitualmente è stata una scelta inconsapevolmente eccezionale. Ho potuto sperimentare approcci diversi e, in una certa misura, complementari: è stato rinfrescante leggere autori contemporanei, per esempio, ma mi è stato utile anche tornare sui classici e vedere, a volte, quanto restino attuali (e capire perché). A volte mi è parso anche di vedere i fili sottili che collegano scrittori di epoche diverse, e mi sono convinta che da questi fili si possa imparare molto.
Curiosità
Per questa newsletter ho voluto dare un’occhiata all’offerta di corsi di scrittura creativa in francese. Il frutto principale delle mie ricerche è stata la scoperta di Elisabeth Bing e del suo approccio alla scrittura insegnata a bambini considerati difficili, che nel tempo è diventato un metodo proposto anche agli adulti. Alcuni degli animateurs che oggi organizzano laboratori di scrittura in Francia e in Svizzera romanda, per esempio, si sono formati con questo metodo. Da Elisabeth Bing, complici le ricerche online in stile una ciliegia tira l’altra, sono arrivata a Giuseppe Pontiggia, scrittore e insegnante italiano visto come uno dei fondatori delle scuole di scrittura in Italia.
Sia Bing che Pontiggia intendevano la pratica della scrittura in senso lato: gli allievi dei loro corsi non erano esclusivamente aspiranti scrittori. In un modo o nell’altro entrambi sembrano aver fatto ricorso al parallelo tra imparare a scrivere e imparare a nuotare, una coincidenza che mi ha sorpresa.
Letture consigliate
“Hills Like White Elephants“ è un racconto che fa parte della raccolta Men Without Women di Ernest Hemingway (evviva il Project Gutenberg). Leggendo questo libro mi sono resa conto di quanto poco conoscessi Hemingway. Una breve ricerca mi ha portata a Uomini senza donne, traduzione italiana di Daniele Benati per la Compagnia Editoriale Aliberti.
Di Eudora Welty ho letto la raccolta di racconti The Golden Apples. In inglese la scrittura della Welty mi è risultata densa; ammetto che ho faticato per finire questo libro. Poi è successo che, mesi dopo, ho iniziato a ricordare scene, descrizioni e dialoghi come se me ne avesse parlato qualcuno che conosco. Se una lettura torna a galla così penso sia un buon segno, eh? In italiano esiste la traduzione di Isabella Zani per Fazi Editore e, più recentemente, per Racconti Edizioni.
Dato che ho tirato fuori i dialoghi segnalo Wendy Erskine, scrittrice nord-irlandese di racconti. I suoi dialoghi sono, mi viene da dire, ferocemente veri. Finora il racconto che più mi ha colpita è “The soul has no skin”, che conclude la raccolta Sweet Home. In Italia Dolce Casa è stato tradotto da Federica Bigotti ed è edito da Atlantide.
Se le opere teatrali contano come letture volte ad affinare l’orecchio per i dialoghi, allora Who’s Afraid of Virginia Woolf? di Edward Albee è un altro spunto utile. Albee mi ha trascinato nel tornado cui sottopone i suoi personaggi e mi ha sputata fuori senza troppi complimenti. In italiano, Chi ha paura di Virginia Woolf? è stato tradotto da Ettore Capriolo per Einaudi.
Il saggio di Elisabeth Bing …et je nageai jusqu’à la page parla delle esperienze della Bing durante i primi laboratori di scrittura che pensò e organizzò per bambini considerati problematici, inventando sia un formato che un mestiere. Non ho letto questo libro ma un po’ mi incuriosisce; in italiano esiste una traduzione (non ho capito di chi, purtroppo), …ho nuotato fino alla riga, pubblicata da Edizioni La Linea.
Il libro di Giuseppe Pontiggia Per scrivere bene imparate a nuotare, edito da Mondadori, raccoglie delle lezioni in forma di intervista originariamente pubblicate negli anni novanta. Non ho letto nemmeno questo saggio, però certo la copertina mi tenta.
Ringraziamenti
Paltò non esisterebbe senza l’aiuto prezioso delle persone che mi hanno accompagnata mentre concepivo la newsletter.
Ringrazio Letizia Sechi per aver portato struttura, metodo e pianificazione in questo progetto, e per essere stata incredibilmente generosa nel condividere ciò che ha imparato con la sua newsletter Alternate Takes. Grazie per le chiacchierate Letizia!
Ringrazio Sarah Rutschmann per aver creato il logo di Paltò: grazie a questa collaborazione ho scoperto il carattere tipografico Filosofia OT, e mi sono resa conto che paltò è ben più di una parola. Danke vielmals Sarah!
Ciao Gaia!
riflessioni interessanti e "fresche" :) non vedo l'ora di leggere le prossime uscite!
grazie per aver condiviso i tuoi appunti, Gaia! molto interessante anche il confronto tra i due diversi approcci. di recente ho sfogliato un manuale di scrittura creativa (firmato da un autore italiano) e in effetti sembrava davvero un ricettario. d'altra parte immagino sia difficile, per chi vuole insegnare a scrivere, trovare un buon equilibrio tra pratica e prescrizione... :)