Lingue come monumenti
Ho parlato con Angelo Zinna, freelancer nomade, del valore politico delle lingue e di incontri linguistici memorabili

Su Substack ti definisci un "freelancer nomade", e in effetti scrivi di luoghi e viaggi per Lonely Planet e molti altri. Da quanti anni sei professionalmente nomade?
La mia è una storia lunga e per niente lineare, ma provo a sintetizzarla. Sono partito dall’Italia nel 2010, quando avevo vent’anni, con l’idea di passare qualche mese lontano da casa. Ho finito per vivere all’estero per gli undici anni successivi. Ho trascorso tre anni tra Australia e Nuova Zelanda, dove ho cominciato a scrivere di quello che mi succedeva su un piccolo blog, pensato per condividere qualche pezzo di vita dall’altro emisfero con le persone che avevo lasciato in Italia. Scrivere di viaggi non era né un lavoro né un’attività che prendevo troppo sul serio, ma da allora non ho mai smesso. A un certo punto poi qualcuno ha cominciato a pagarmi per farlo.
Nel 2013 ho lasciato la Nuova Zelanda. Ho preso un volo per il paese più vicino in Asia, il Timor Est, con l’intenzione di tornare in Italia via terra. Ho fallito, ma ci ho messo un paio di anni a fallire. Ho attraversato una ventina di paesi, rientrando in Toscana alla fine del 2014. Pensavo che mi sarei fermato per un po’, dato che era da quattro anni che non tornavo in Italia, ma mi sono trovato male e dopo pochi mesi mi sono trasferito a Londra. Nel frattempo, le cose che scrivevo hanno iniziato a prendere una forma diversa: ho pubblicato un libro, Un altro bicchiere di arak, e sono arrivati i primi lavori di comunicazione in remoto che mi facevano intravedere la possibiltà di slegarmi da un luogo fisso.
Nel 2016 mi sono iscritto all’università in Olanda. Nel 2017 ho aperto l’equivalente della partita IVA, diventando un freelancer a tempo pieno. Ho capito che per lavorare con la scrittura avrei dovuto scrivere in inglese, così ho cominciato a costruire un portfolio nella mia seconda lingua. Da allora mi divido tra progetti di comunicazione per aziende e progetti di giornalismo culturale. Passo dai tre ai cinque mesi in giro ogni anno, per lavoro e per interesse personale verso i luoghi di cui mi occupo. Cerco di tenere traccia delle città in cui sono stato su questa mappa, ma non ho l’ambizione di andare ovunque. Anzi, torno spesso in posti dove sono già stato.
Dal 2021 scrivo anche guide Lonely Planet, per cui copro la Toscana, i Paesi Baltici e la Finlandia, e il Caucaso. Questo è un lavoro che mi concede il lusso di passare molto tempo nei luoghi di cui devo scrivere, il che a sua volta mi dà accesso a storie che altrimenti sarebbe difficile trovare, spingendomi a ricercare temi che prima ignoravo. È un’attività che si autoalimenta.
Mi hai detto che quando ti sposti per lavoro usi la lingua franca che è l'inglese. Ti è mai capitato di trovarti in un luogo dove capire e farsi capire è stato difficile? Come hai affrontato la situazione, che cosa ti ha aiutato?
Farmi capire può essere difficile anche in italiano! Mi sono sempre mosso con l’inglese per motivi strettamente pratici: per un lungo periodo ho viaggiato non per turismo, ma per stabilirmi nei paesi in cui mi trasferivo. Di conseguenza, sono sempre andato in luoghi in cui sapevo di potermi mantenere parlando l’unica lingua che conoscevo oltre all’italiano.
Per otto anni ho finanziato i miei viaggi facendo il barista. È uno dei lavori più facilmente esportabili, e mi ha permesso di conoscere un gran numero di persone girando il mondo: ho lavorato come barista a Melbourne, Perth, Wellington, Londra e Amsterdam.
All’inizio non conoscevo bene l’inglese e non sarei in grado di elencare tutte le figuracce che ho fatto. Spesso la difficoltà non è tanto nella comunicazione di base, quanto nel riuscire a mettersi in relazione con persone che hanno un senso dell’umorismo diverso dal proprio, per esempio, o modi di interagire che non risultano spontanei. Quando ci si trasferisce in una città lontana da soli le priorità immediate sono altre, ma credo che nel lungo termine sia importante anche entrare nella mentalità del luogo in cui si vive – e per questo non basta il dizionario, ci vuole pazienza.
Per turismo ho viaggiato in molti paesi dove non ero in grado di comunicare nella lingua locale, ma non è mai stato un ostacolo insormontabile. In Asia, per due anni mi sono mosso senza uno smartphone e senza mai prenotare in anticipo un posto per dormire: oggi mi sembra un’altra epoca. In Cina, forse il paese in cui la comunicazione è stata più difficile, mi muovevo con dei biglietti di carta in tasca su cui avevo fatto scrivere una decina di frasi utili. Ci sono andato avanti per due mesi! La mia impressione è che il turismo viaggi su un binario parallelo rispetto alla quotidianità delle persone che vivono in un luogo: in un certo senso, i bisogni del turista sono spesso così superficiali che in qualche modo si trova sempre una soluzione nella comunicazione. Non è una critica, anzi, parlo per esperienza personale.
Certo, sono sicuro di essermi perso tante belle conversazioni e potenziali amicizie non conoscendo le lingue di alcuni luoghi che ho visitato. Ma mi è capitato anche di essere ospitato da persone con cui non era possibile parlare, riuscendo comunque a comunicare in modo più profondo di quanto non mi capiti a volte quando sono a casa. La lingua è un mezzo, ma non è l’unico mezzo.
Per quanto riguarda il lavoro che faccio oggi, la situazione è diversa. Adotto un approccio pragmatico: se mi trovo in un posto in cui si parla poco inglese e devo recuperare informazioni certe, mi organizzo in anticipo per trovare persone che mi possano aiutare. Non è un metodo infallibile, ma nel nostro mondo globalizzato è più semplice di quel che sembra. Anzi, a volte trovo un po’ arrogante il pensiero che in altre parti del mondo non ci siano persone in grado di parlare inglese al nostro livello, perché non è così.
Ho l'impressione che una persona con la tua esperienza professionale sviluppi uno sguardo raro e prezioso sulla ricchezza linguistica del nostro pianeta. Che ne pensi? È un aspetto a cui ti capita di pensare?
Uno dei miei interessi principali è il rapporto tra la memoria collettiva e gli oggetti che ci circondano. Mi piace capire cosa un oggetto ci può dire di una società (e viceversa). In Kult, il podcast che ho fatto con Eleonora Sacco, abbiamo raccontato tutte le storie che emergono da una statua di Lenin. Ho scritto degli ultimi templi dello zoroastrismo nel Caucaso e di come l'architettura brutalista sia diventata di moda.
La lingua per me è sempre stata più un mezzo che un fine. Nel tempo, però, mi sono reso conto che per molte persone anche la lingua può essere un monumento, uno da proteggere o da abbattere. Questo è l’aspetto delle lingue che mi incuriosisce di più. Non è tanto il significato delle parole, quanto i tentativi di preservare qualcosa di astratto, qualcosa che non può essere conservato in un museo. Le lingue cambiano e scompaiono ogni giorno, ma ci sono tante persone per cui l’utilità di una lingua sta più in ciò che rappresenta nel suo insieme che nel suo potere di comunicare gli altri. A volte mi sembra che una lingua sia proprio un monumento, un oggetto la cui ricchezza va oltre il suo lato pratico.
Non credo di essere in grado di capire davvero la ricchezza linguistica del nostro pianeta, però c’è un valore politico nelle lingue che si può osservare anche non parlandole, e questo è l’aspetto che più mi attira.Se si parla di lingue minoritarie, per esempio, l’impegno speso nella loro conservazione va oltre la stretta logica della praticità che guida molte delle nostre azioni.
Condivido una storia che mi è stata raccontata di recente e che credo rappresenti bene questi aspetti. Negli anni settanta, un uomo georgiano ha ingannato l’Unione Sovietica fingendo di insegnare inglese in una scuola di Mosca. Questa persona aveva preso un’abilitazione per insegnare inglese e gli era stata assegnata una classe in Russia, ma quando è arrivato davanti ai suoi studenti ha colto l’opportunità per espandere la lingua mingreliana, una lingua regionale parlata nell’ovest della Georgia. Per sei anni, invece di insegnare inglese ha insegnato mingreliano: se ho capito bene, gli studenti non sapevano dell’inganno e pensavano di imparare l’inglese. Solo quando una studentessa ha dovuto affrontare un test d’ingresso per l’università le autorità si sono accorte che, per anni, aveva imparato una lingua diversa da quella scritta sul diploma. L’insegnante è stato arrestato.
Nei tuoi tanti viaggi ti sono già capitati incontri linguistici che ti sono rimasti particolarmente impressi? Penso a una lingua a rischio di scomparsa o a un inglese bizzarro, magari.
Pensando all’inglese, mi torna in mente una newsletter sul punk australiano che ho scritto per raccontare come questa musica sia caratterizzata da una lingua che, secondo me, ha qualcosa a che fare con il vivere così lontano dal resto del mondo (o, almeno, questa è la mia teoria speculativa). È un fenomeno che mi diverte molto, anche se sono passati quindici anni da quando vivevo in Australia.
Forse l’incontro linguistico più importante è stato quello con la mia lingua. Sono nato in Finlandia, in un piccolo paese dove non ho mai vissuto. La famiglia di mia madre fa parte della minoranza svedese della Finlandia, che oggi sarà il 5% o il 6% della popolazione finlandese. Da bambino sapevo parlare svedese: crescendo e cominciando a parlare inglese quotidianamente l’ho perso. Oggi parlo svedese poco e male; non ho mai imparato il finlandese.
Negli ultimi anni sono tornato spesso in Finlandia e ho iniziato a pensare a quanto sia strana questa situazione. Lo svedese finlandese è un po’ diverso dallo svedese di Svezia (che suona molto più musicale alle mie orecchie), quindi faccio fatica a capire cosa dicono gli svedesi in Svezia. Allo stesso tempo, il finlandese è completamente diverso dallo svedese e quindi non sono in grado di comunicare con i finlandesi appena esco dai confini del villaggio in cui abita mia nonna. Per questo motivo, non sento di appartenere al paese in cui sono nato nonostante i legami familiari, il passaporto e tutto il resto. Non che mi sia mai interessata l’appartenenza nazionale, però ecco, quando uno si trova a non capire niente da nessuna parte ci pensa. Oggi in realtà apprezzo il valore di vivere in un margine non ben categorizzabile, dove tante delle risposte standard alla domanda “Chi sei?” non funzionano.
Ho letto con interesse il tuo articolo sulla lingua sámi di Inari. Credo che tu abbia già in programma un 'dietro le quinte' per uno dei prossimi numeri della tua newsletter, ma... vuoi cogliere questa occasione per una breve anteprima?
Sì, qualche tempo fa ho scritto un articolo per National Geographic sulle persone che si stanno occupando di preservare la lingua sámi di Inari. È una storia affascinante, resa più ricca anche dal fatto che tra gli attivisti linguistici impegnati in questo progetto c’è un italiano, Fabrizio Brecciaroli, diventato uno dei pochi stranieri a parlare una lingua con cui oggi comunicano tra loro circa 500 persone.
L’anno scorso ho viaggiato per circa un mese in Lapponia e dintorni, e in quel periodo ho fatto ricerche per una storia poco nota persino in Finlandia. C’è un contesto più ampio, che per motivi di spazio non è stato pubblicato (e del resto potrebbe occupare vari libri), che riguarda il ruolo della lingua nella definizione dell’identità Sámi. Oltre ai Sàmi di Inari, infatti, ci sono altri gruppi la cui lingua è a rischio scomparsa, tra cui i Sámi Skolt che vivevano in una regione della Finlandia ceduta all’Unione Sovietica dopo la seconda guerra mondiale. La loro lingua è influenzata dal russo.Stabilire chi può definirsi Sámi non è una questione semplice.
Ricercare storie del genere è di per sé non facile: i Sámi sono uno dei popoli indigeni più studiati del mondo e c’è, oggi, un po’ di protezionismo nei confronti della storia Sámi da parte della comunità. I Sámi sono coscienti del fatto che raccontare una storia significa in qualche modo appropriarsene, quindi fanno molta attenzione a chi può occuparsene e a come vengono inquadrate cultura, politica e identità locali. Quella sulla lingua sámi di Inari non era l’unica storia che sto ricercando. Non ho avuto accesso a tutte le informazioni di cui avevo bisogno, quindi ho dovuto abbandonare alcune strade – è una cosa che accetto perché capisco le ragioni di questa comunità.
Date un’occhiata alla newsletter
, al sito web di Angelo e al suo profilo Instagram, @angelo_zinna.
Bellissima intervista. Mi ha colpito la parte in cui si dice che "raccontare una storia significa in qualche modo appropriarsene". Anche far costruire un monumento è un modo di raccontare la storia, di solito LA Storia "definitiva". È quindi senz'altro comprensibile che in certe culture a rischio venga privilegiata la trasmissione orale, proprio per mantenerle vive. Grazie per tutti questi spunti di rilfessione.